Decenni di studi hanno dimostrato che non è l’omosessualità, ma l’omonegatività, a dover essere curata in quanto malattia socio-culturale antica e radicata. Come sottolinea Anna Maria Ancona (Presidente dell’Ordine degli psicologi dell’Emilia Romagna) vi sono essenzialmente due dimensioni nell’omofobia: una psicologica e un’altra sociale
Quando il termine “omofobia” è stato coniato nel 1972 dallo psicologo americano Weinberg l’attenzione era più concentrata sugli aspetti psicologici, data appunto la natura di “fobia”. In breve è stato chiaro però come, alla stregua della xenofobia, l’omofobia fosse fortemente determinata da fattori sociali, al pari del razzismo e dell’antisemitismo. L’omofobo, infatti, come il razzista, non ritiene di avere un problema: i suoi pregiudizi si inseriscono in un sistema codificato di credenze diffuso nell’ambito in cui si muove e interagisce.
La descrizione più corretta di omofobia, dunque, è quella di “fenomeno sociale che può essere individuato all’interno delle ideologie culturali e nelle relazioni inter-gruppo, dove i sentimenti omofobi, gli atti denigratori e i pensieri di disprezzo soggettivi sono indotti da pregiudizi sociali oltre che da fattori personali“.
Il timore di essere identificato o etichettato come omosessuale può essere un ulteriore fattore scatenante degli atteggiamenti omofobici. E’ infatti possibile che l’omofobo, esprimendo giudizi o manifestando degli atteggiamenti antiomosessuali, non solo esterni la propria opinione ma contemporaneamente segnali al mondo circostante la sua distanza dalla categoria in questione. Vuole così ribadire l’identità eterosessuale che gli è stata assegnata fin dalla nascita, approvata dalla maggioranza della società. L’omofobia, nella sua dimensione psicologica individuale, si riferisce alle rappresentazioni interne degli stereotipi riferiti all’ identità sessuale, dei comportamenti non eterosessuali e dei pregiudizi riferiti alla credenze sulle persone omosessuali.
E’ importante ricordare che l’atteggiamento omofobo può essere cambiato tramite un lavoro profondo su di sè, aiutando la persona ad identificare le motivazioni che lo condizionano negativamente nei processi di pensiero e di azione.
Trattandosi sia di processi psicologici individuali che elementi sociali e culturali, per descrivere il fenomeno discriminatorio, si potrebbe anche parlare di omonegatività.
Non è dunque l’omosessualità a dover essere curata ma l’omonegatività, che può essere combattuta e debellata solo con l’integrazione, l’informazione, il rispetto e l’educazione sociale al valore delle diversità.